manifesti prima settimana
manifesti seconda settimana
manifesti terza settimana
manifesti quarta settimana
Tanti auguri e saluti, 2023
Mostra personale, Marina Bastianello gallery, Mestre (VE)
11 febbraio 12 marzo 2023
A cura di Pietro Gaglianò
Il viaggio di Iginio sul bordo delle cose
Tutto comincia con un messaggio inviato nello spazio. Era il 1977 e un incauto ottimismo alimentava ancora la convinzione che altre forme di vita intelligenti sarebbero volentieri entrate in contatto con il pianeta terra. Con questo slancio, e con l’incrollabile fiducia statunitense nella propria vocazione a rappresentare l’umanità intera, la NASA spedì nel sistema solare le due sonde Voyager; su ognuna di esse venne caricato il Voyager Golden Record su cui sono registrate immagini, musiche e una raccolta di saluti beneauguranti in diverse lingue, ognuno con una sfumatura caratteristica. La versione italiana dice proprio così, Tanti auguri e saluti, come direbbe la zia chiudendo l’annuale telefonata natalizia, come scrivevano una volta sulle cartoline i parenti lontani, come nessun extraterrestre, nemmeno il più inverosimile, si immaginerebbe mai di poter capire. Le due sonde, si sa, sono ancora in viaggio, con infinitesimali probabilità di raggiungere davvero qualcosa o qualcuno prima di qualche decina di migliaia di anni. Comincia da qui il progetto di Iginio De Luca, dal paradosso implicito in questi saluti che se un giorno si spingeranno fino a un’intelligenza aliena sicuramente la faranno sorridere per la nostra paesana cordialità, per la bonaria irrilevanza dell’augurio.
L’emissione di un messaggio con tali presupposti, senza nessuna certezza sui destinatari, lanciato attraverso un tempo, letteralmente sovrumano, di migliaia e migliaia di anni, è un atto di fede. Ma ogni fede nell’invisibile e nell’indimostrabile, anche la più oltranzista, si alimenta anche del dubbio. Questa professione di visionarietà si affresca quindi sotto la volta arcana di un universo sospeso dove abitano molti elementi ricorrenti nel lavoro di De Luca, come lui stesso scrive: “l’intervallo, il congelamento, l’apnea, la precarietà, un moto ascensionale dell’emersione, l’epifania di qualcosa che è nascosto, che appare e si rivela”. Quasi tutta la sua ricerca, del resto, si svolge (e talora si riavvolge) nell’attenzione alle condizioni di soglia, là dove prendono forma confini mobili, i momenti in cui avvengono i passaggi di stato, in cui la percezione di chi osserva trasforma le persone, i luoghi e le cose in qualcos’altro.
Le sue opere si manifestano così, talora accadendo in maniera repentina, quasi accidentale, irripetibile, nella forzatura di una linea tra interno ed esterno, visibile e invisibile, pubblico e privato, comico e tragico, tra personale e politico. La soglia, in tal modo, è intesa come luogo spiazzante di incertezza ma anche di possibilità inaudite, e con questo spirito viene visitata e poi sovrascritta, contravvenendo alle regole, mettendo in crisi le convenzioni.
Dispositivi democratici
A tutto questo deve essere preparato chi si imbatte nelle opere di De Luca, a questo e all’esercizio di una tenace ironia come possibile resistenza agli abusi di potere. Una riflessione si annoda lungo tutti i suoi lavori e contrappone sempre l’azione positiva (la dichiarazione di un sé individuale o collettivo, la produzione di pensiero critico) alla passività, alla condizione in cui si subisce il controllo occulto, la propaganda, la compressione delle sfere di libertà. Su questa ulteriore linea di soglia l’artista costruisce le sue macchinerie, radunando oggetti, parole, suoni (come se fosse per un altro disco da caricare su Voyager) e offrendoli all’esperienza del visitatore.
I dispositivi per la visione e per l’ascolto delle sue opere sono consapevolmente intesi foucaultianamente come strumenti per l’azione del potere, ma a ruoli ribaltati, o reinventati. Da qui la predilezione per l’affissione di manifesti nello spazio pubblico, praticata in più occasioni e portata sul margine di un’altra contraddizione quando, all’interno della galleria Marina Bastianello, costruisce una cospicua struttura in tubi innocenti che regge due pannelli di formato 3 metri per 2, tra i più grandi fra quelli che incontriamo per strada (per strada, appunto, e non all’interno di una galleria). Sui due lati di questa struttura ogni giorno vengono affissi altrettanti manifesti: si tratta di immagini tratte dai Blitz che De Luca ha compiuto nello spazio pubblico o da altre serie, altre opere, sempre connesse alla sfera dei rapporti tra individuo e sistemi di potere.
Il secondo dispositivo mette in campo la comunicazione audio e qui si concretizza in una struttura, ancora in tubi innocenti, dove due casse trasmettono in loop una sequenza di opere sonore, tutte realizzate dall’artista sonorizzando materiali e luoghi o rielaborando gli inni nazionali, suprema espressione di un’identificazione collettiva astratta e abusata.
Un terzo elemento pone in relazione i due dispositivi: un megafono installato sulla parete e attrezzato di un motorino che lo fa ruotare di 180 gradi, come una videocamera di sorveglianza che monitora lo spazio e chi lo attraversa. La tromba del megafono, infatti, è chiusa da uno specchio (ma potrebbe essere una lente) e trasforma così l’oggetto in qualcosa di sinistramente ambiguo che include il visitatore in una maglia di ruoli, tra la protesta e il controllo. Non è un caso che il megafono sia ricorrente nelle opere di De Luca, con alterazioni della sua riconoscibile morfologia, con l’aggiunta di frasi e con l’uso tradizionale, quello a noi più familiare, di strumento per l’amplificazione della voce durante azioni di protesta. Ma la forma del megafono, così simile agli altoparlanti usati anche nei campi di concentramento, ci ricorda la versatilità di ogni strumento e l’impossibilità di considerarlo neutrale.
Così sono i dispositivi: appartengono agli apparati del potere (e in questa tradizione di comunicazione egemonica sono stati elaborati), con effetti tragici nelle sue declinazioni totalitarie, ma sono poi stati assorbiti nelle relazioni della vita democratica e, molte volte, utilizzati come supporti per la lotta per i diritti, per la protesta, anche radicale. La successione dei manifesti (incollati uno sull’altro in una stratificazione identica a quella delle pubblicità e delle comunicazioni elettorali) e la sequenza delle tracce sonore nella mostra veneziana suggeriscono quanto questa consapevolezza sia profondamente, sensibilmente presente nel lavoro di De Luca. I manifesti affissi riferiscono parti incomplete di una storia, porgono indizi, offrono punti di vista non del tutto espliciti (al contrario di quanto fa la dinamica della comunicazione di massa) e mai convenzionali che, raccolti insieme compongono una critica del mito della democrazia come uguaglianza e giustizia. E di questo parlano anche gli interventi sulle tracce audio degli inni nazionali e l’occhiuto megafono, risvegliando il pensiero che il funzionamento dei sistemi di governo nel mondo europeo include la possibile deviazione verso l’autoritarismo e la corrente, patente, condizione di esclusione di alcune categorie sociali.
Ironico e quasi demiurgico
Iginio De Luca traduce tutto questo in installazioni, performance, video e altri formati e (quasi) dappertutto corre un rumore di sottofondo: è la risata sommessa dell’artista che osserva il mondo con un disincanto e una franca, amara rassegnazione a cui si possono opporre solo l’ironia, che senza minimizzare le persone e le vicende le pone in una dimensione attingibile, e l’esperienza dell’arte, che suggerisce il senso del possibile e, quindi, l’alternativa al grigiore di questi costrutti oppressivi, e l’ispirazione per resistere.
È la posizione che la figura dell’artista, inteso come soggettività nella grammatica contemporanea della produzione culturale, copre da quando ha assunto autonomia rispetto ai poteri politici e spirituali. È la posizione che a fatica alcuni artisti oggi riescono ancora a mantenere rispetto a nuovi poteri amministrativi e finanziari, legati alle oligarchie del sistema dell’arte. Fino a quando questa posizione rimane salda, o almeno difendibile, anche a costo di rinunce e esclusioni, o comunque riconoscibile, l’arte può ancora essere lo squarcio nel velo di Maya.
L’artista quindi non crea mondi ma li svela. E Iginio, da questa posizione, lo fa con la leggerezza alata di un sorriso (talvolta amaro, come ricorda anche il titolo di una sua mostra di qualche anno fa) e con l’impegno fisico, corporeo del lavoro. Un altro tratto costante della sua ricerca è infatti la forte sensorialità di cui investe gli oggetti e la materia: è un’azione che si concretizza in installazioni e, inaspettatamente, anche nella capacità pittorica. Soprattutto però il contatto con la superficie delle cose ha il respiro di una creazione musicale. De Luca, da navigato percussionista, ha suonato, tra le altre cose, un letto, alcuni reperti romani, un intero paese e il paesaggio. E ha fatto suonare le persone, le comunità, i ragazzi di una scuola, immergendo il passaggio della quotidianità nella connessione speciale con sé e con il mondo che solo l’arte consente.
Mi raccomando i saluti
La visione complessiva della mostra, con la stratificazione dei flussi visivi e sonori, richiede quindi un lungo tempo di ascolto e il ritorno quotidiano in galleria. A chiosa e conclusione di questo azzardo, in uno spazio appartato e buio, nel retro, lampeggia al ritmo del codice morse un lightbox con l’immagine di un chiosco di fiori e piante. È uno dei tanti che illuminano incessantemente la notte di Roma, ai quali De Luca ha dedicato una serie di fotografie e un video, attratto dalla sospensione in cui paiono levitare in bolle di luce. La capitale è costellata di queste cellule tropicali aperte 24 ore al giorno, in modo misterioso, enigmatico, quasi come sonde spaziali immerse nel buio cosmico e lanciate come un messaggio di resistenza, di pura sopravvivenza, o solo come un laconico saluto ai passanti. Il messaggio battuto dal lampeggiare morse, naturalmente, è Tanti auguri e saluti.
Pietro Gaglianò
Tanti auguri e saluti, 2023
Personal exhibition, Marina Bastianello gallery, Mestre (VE)
February 11 to March 12, 2023
Curated by Pietro Gaglianò
Iginio’s journey on the edge of things
It all begins with a message sent into space. It was 1977, and a naive optimism still fueled the belief that other intelligent life forms would willingly make contact with planet Earth. With this enthusiasm and the unshakable U.S. confidence in its vocation to represent all of humanity, NASA sent the two Voyager probes into the solar system. On each of them, the Voyager Golden Record was loaded with recorded images, music, and a collection of well-wishing greetings in various languages, each with its own characteristic nuance. The Italian version says just that, “Tanti auguri e saluti,” as if one’s aunt were ending the annual Christmas phone call, as they once wrote on postcards to distant relatives, as no extraterrestrial, not even the most unimaginable, would ever expect to understand. The two probes are still on their journey, with infinitesimal chances of actually reaching anything or anyone before tens of thousands of years. This is where Iginio De Luca’s project begins, with the implicit paradox in these greetings that, if one day they reach an alien intelligence, will surely make it smile at our friendly provinciality, at the benevolent irrelevance of the greeting. The transmission of a message with such assumptions, with no certainty about the recipients, launched through a literally superhuman span of time, is an act of faith. But every faith in the invisible and the unprovable, even the most extreme, is also nourished by doubt. This profession of visionary thinking is thus painted under the arcane vault of a suspended universe where many elements recurring in De Luca’s work reside, as he writes himself: “the interval, the freeze, the apnea, precariousness, an ascensional motion of emergence, the epiphany of something hidden that appears and reveals itself.” Almost all of his research, after all, unfolds (and sometimes rewinds) in attention to threshold conditions, where movable boundaries take shape, moments when state transitions occur, where the perception of the observer transforms people, places, and things into something else. His works manifest in this way, sometimes happening suddenly, almost accidentally, unrepeatable, in the forcing of a line between inside and outside, visible and invisible, public and private, comedic and tragic, between personal and political. The threshold, in this way, is understood as a disconcerting place of uncertainty but also of unheard-of possibilities, and with this spirit, it is visited and then overwritten, violating the rules, challenging conventions.
Democratic devices
All of this must be prepared for by those who encounter De Luca’s works, along with the exercise of a tenacious irony as possible resistance to abuses of power. A reflection intertwines through all his works, always opposing positive action (the declaration of an individual or collective self, the production of critical thought) to passivity, to the condition in which hidden control, propaganda, and the compression of spheres of freedom are suffered. On this additional threshold line, the artist builds his machineries, gathering objects, words, sounds (as if for another record to be loaded onto Voyager) and offering them to the visitor’s experience. The devices for viewing and listening to his works are consciously intended, Foucaultianly, as instruments for the action of power, but with roles overturned or reinvented. Hence the preference for posting posters in public spaces, practiced on several occasions and brought to the edge of another contradiction when, inside the Marina Bastianello gallery, he constructs a substantial structure with innocent pipes that holds two panels measuring 3 meters by 2, among the largest we encounter on the street (on the street, indeed, not inside a gallery). On both sides of this structure, two posters are posted every day: these are images taken from the blitzes that De Luca carried out in public spaces or from other series, other works, always connected to the sphere of the relationship between the individual and systems of power. The second device puts audio communication into play and materializes in a structure, again made of innocent pipes, where two speakers loop a sequence of sound works, all created by the artist by soundtracking materials and places or reworking national anthems, the supreme expression of an abstract and abused collective identification. A third element relates the two devices: a megaphone installed on the wall and equipped with a small motor that rotates it 180 degrees, like a surveillance camera monitoring space and those who cross it. The megaphone’s horn is closed by a mirror (but it could be a lens) and thus transforms the object into something sinisterly ambiguous that includes the visitor in a network of roles, between protest and control. It is no coincidence that the megaphone is recurrent in De Luca’s works, with alterations to its recognizable morphology, with the addition of phrases, and with its traditional use, the one most familiar to us, as a tool for amplifying the voice during protest actions. But the megaphone’s shape, so similar to the speakers also used in concentration camps, reminds us of the versatility of every tool and the impossibility of considering it neutral. So, the devices belong to the apparatuses of power (and in this tradition of hegemonic communication, they have been developed), with tragic effects in its totalitarian declinations, but they have then been absorbed into the relationships of democratic life and, many times, used as supports for the struggle for rights, for protest, even radical. The succession of posters (glued one on top of the other in a stratification identical to that of advertisements and electoral communications) and the sequence of soundtracks in the Venetian exhibition suggest how deeply and sensibly this awareness is present in De Luca’s work. The posted posters report incomplete parts of a story, offer clues, provide not entirely explicit points of view (unlike the dynamics of mass communication) and never conventional ones that, when gathered together, compose a critique of the myth of democracy as equality and justice. And this is also what the interventions on the audio tracks of national anthems and the watchful megaphone talk about, reawakening the thought that the functioning of government systems in the European world includes the possible deviation towards authoritarianism and the clear, evident condition of exclusion of some social categories.
Ironic and almost demiurgic
Iginio De Luca translates all this into installations, performances, videos, and other formats, and (almost) everywhere there is a background noise: it is the subdued laughter of the artist who observes the world with a disillusionment and a frank, bitter resignation that can only be opposed by irony, which, without minimizing people and events, places them in an accessible dimension, and the experience of art, which suggests the sense of the possible and, therefore, the alternative to the grayness of these oppressive constructs, and the inspiration to resist. This is the position that the figure of the artist, understood as subjectivity in the contemporary grammar of cultural production, has covered since gaining autonomy from political and spiritual powers. This is the position that some artists today still manage to maintain with difficulty in relation to new administrative and financial powers, linked to the oligarchies of the art system. As long as this position remains firm, or at least defensible, even at the cost of renunciations and exclusions, or in any case recognizable, art can still be the tear in the veil of Maya. The artist, therefore, does not create worlds but reveals them. And Iginio, from this position, does it with the winged lightness of a smile (sometimes bitter, as also remembered by the title of one of his exhibitions a few years ago) and with the physical, bodily commitment of work. Another constant trait of his research is indeed the strong sensoriality with which he invests objects and matter: it is an action that materializes in installations and, unexpectedly, also in the pictorial capacity. Above all, though, the contact with the surface of things has the breath of a musical creation. De Luca, as a seasoned percussionist, has played, among other things, a bed, some Roman artifacts, an entire village, and the landscape. And he has made people, communities, school children sound, immersing the passage of everyday life in the special connection with oneself and with the world that only art allows.
Remember greetings
The overall view of the exhibition, with the layering of visual and sound flows, therefore requires a long time of listening and daily return to the gallery. As a concluding touch to this venture, in a secluded and dark space in the back, a lightbox with the image of a flower and plant kiosk flashes at the rhythm of Morse code. It is one of the many that incessantly illuminate the night in Rome, to which De Luca dedicated a series of photographs and a video, attracted by the suspension in which they seem to levitate in bubbles of light. The capital is dotted with these tropical cells open 24 hours a day, in a mysterious, enigmatic way, almost like space probes immersed in cosmic darkness and launched as a message of resistance, of pure survival, or just as a laconic greeting to passersby. The message conveyed by the flashing Morse, of course, is “Tanti auguri e saluti.”